sabato 17 novembre 2007

il prurito

Era una mattinata troppo splendida per arrendermi alla macchina da scrivere. Me ne andai nella foresta, da solo, e quando arrivai nel posto dove di solito sostavo, sulla riva dello stagno, sedetti su un ceppo, mi presi la testa fra le mani e cominciai a ridere. Ridevo di me, e poi di lui, poi del fato, poi delle onde selvagge che andavano su e giù, perché avevo la testa piena solo di onde selvagge che andavano su e giù. Tutto considerato, era una rottura fortunata. Grazie al cielo, non eravamo sposati; non c’erano figli, né complicazioni. Anche se voleva tornare a Parigi, pensavo che in un modo o nell’altro sarei riuscito a sistemare le cose. Cioè, con un minimo di cooperazione da parte sua.
Ma che lezione mi aveva dato! Mai, mai più avrei fatto lo sbaglio di cercar di risolvere i problemi di qualcuno. Come ci si inganna, se si pensa che con un po’ di sacrificio personale è possibile aiutare qualcuno a superare le sue difficoltà! Com’è egoistico, tutto ciò! E come aveva ragione a dire che l’avevo messo in stato d’inferiorità! Aveva ragione… e aveva torto! Perché, dopo un rimprovero del genere, avrebbe dovuto concludere con le seguenti parole: «Me ne vado. Parto domani. E stavolta non porterò con me neanche lo spazzolino da denti. Me la caverò da solo, qualsiasi cosa accada. Il peggio che può capitarmi è d’essere espulso. Anche se mi rispediscono all’inferno, è sempre meglio che esser di peso a qualcuno. Almeno, potrò grattarmi in pace! »
A questo punto mi venne in mente una cosa strana: che anch’io soffrivo il prurito, solo che era un prurito di quelli che non si possono grattare, un prurito che non si manifesta fisicamente. Ma c’era lo stesso… là dove inizia e finisce ogni prurito. L’aspetto disgraziato del mio malanno era che nessuno mi aveva mai sorpreso a grattarmi. Eppure ce l’avevo, giorno e notte, e mi grattavo febbrilmente, freneticamente, senza smettere mai. Come san Paolo, mi dicevo continuamente: «Chi mi libererà dal corpo di questa morte?». Che ironia che la gente mi scrivesse da tutte le parti del mondo, ringraziandomi per l’incoraggiamento e l’ispirazione che le mie opere avevano dato loro. Nessun dubbio che mi considerassero un essere emancipato. Eppure, ogni giorno della mia vita mi battevo contro un cadavere, uno spettro, un cancro che s’era impadronito della mia mente e mi distruggeva più di qualsiasi malanno fisico. Ogni giorno dovevo incontrare e battermi da capo con la persona che avevo scelto per compagna, scelto come colei che avrebbe apprezzato «la buona vita» e l’avrebbe divisa con me. E, fin dal principio, non era stato altro che un inferno: un inferno e un tormento. A peggiorare le cose, i vicini la consideravano una creatura modello: così vivace, così allegra, così generosa, così calda. Una madre tanto affettuosa, una così brava massaia, una così perfetta padrona di casa! Non è facile vivere con un uomo che ha trent’anni di più, per giunta uno scrittore, e specie uno scrittore come Henry Miller. Tutti se ne rendevano conto. Vedevano tutti che faceva del suo meglio. Ne aveva di coraggio, quella ragazza!
E non avevo forse fatto fiasco altre volte? Varie altre volte, per la verità. Esisteva, sulla terra, una donna capace di andare d’accordo con un uomo come me? Era così, con questa frase, che finivano quasi tutte le nostre discussioni. Che cosa rispondere? Non c’era risposta. Imprigionati, giudicati, condannati a provare e riprovare la scena, finché uno dei due fosse crollato da una parte, per dissolversi come un cadavere in putrefazione.
Non un giorno di pace, non un giorno di felicità, se non da solo. L’attimo in cui apriva bocca: guerra! Sembrava tanto semplice: dateci un taglio! divorziate! separatevi! E la bambina? Come avrei fatto, in tribunale, a rivendicare il diritto di tenere mia figlia? – Lei? Un uomo con la sua reputazione? – Mi pareva di vedere il giudice con la bava alla bocca. L’avessi anche fatta finita con me stesso, le cose non cambiavano. Dovevamo tirare avanti. Dovevamo continuare a combattere. No, non è la parola giusta. Dovevamo smussare gli angoli. (Con che cosa? Una pialla?) Il compromesso! E’ meglio. Macché! Allora arrenditi. Riconosci che sei fottuto. Lasciati mettere sotto i piedi. Fa finta di non sentire, di non udire, di non vedere. Fa finta d’essere morto.
Oppure
: cerca di convincerti che tutto è bene, tutto è Dio, che non c’è null’altro che il bene, null’altro che Dio che è tutta bontà, tutta luce, tutto amore. Cerca di convincerti… Impossibile! Bisogna esserne convinti sul serio. Punkt! E non basta neppure. Devi saperlo. Meglio ancora… Devi sapere di saperlo.
E che accade se, nonostante tutto, te la trovi davanti, a sfottere, canzonare, deridere, denigrare, motteggiare, mentire, falsificare, distorcere, sminuire, chiamare nero il bianco, sorridere sdegnosamente, sibilare come un serpente, brontolare, calunniare, rizzare gli aculei come un… porcospino? Che accade, allora?
Ma come, dici che è bene, che è Dio che si manifesta, che è l’amore che appare: solo, alla rovescia.
E allora?
Guardi attraverso il negativo… finché vedi il positivo.
Provalo, qualche volta: un esercizio mattutino. Meglio dopo esser stati cinque minuti a testa in giù. Se non funziona, mettiti in ginocchio e prega.
Funzionerà
, deve funzionare!
E’ lì che ti sbagli
. Se pensi che deve, non funzionerà.
Ma deve, alla fin fine. Altrimenti continuerai a grattarti fino a morire.
Cos’è che dice il mio amico Alan Watts? «Quando è fuor di dubbio che il prurito non può essere eliminato a furia di grattare, smette di prudere da solo.»

(Henry Miller, Paradiso perduto)



prosa magistraleconsiglio l’edizione Oscar Mondadori con l’ottima introduzione di Maurizio Cucchi

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