mercoledì 21 novembre 2007

perché alcune opere ci feriscono?

L'estetica del brutto

intervista a Remo Bodei di Silvia Calandrelli rilasciata alla DEAR di Roma il 30-7-96 emsf

Professor Remo Bodei, la definizione del brutto incontra le stesse difficoltà, se vogliamo, rovesciate e speculari, di quella del bello. Vi è qualche strategia allora per definirlo, per delimitare bene il campo?
Il brutto è sempre stato considerato come l'ombra del bello, come il suo fratello gemello cattivo. Sostanzialmente, all'inizio della nostra civiltà, il brutto, come il falso ed il cattivo in senso morale, è una mancanza, è un'assenza di bello, un'assenza di vero, un'assenza di buono. Quindi l'unica strategia per capire che cosa è il brutto, è di strapparlo nella sua storia da questa assenza e vedere come acquisti progressivamente dei caratteri ben determinati e poi come acquisti anche diritto di cittadinanza nella patria dell'arte.
Nella filosofia greca, soprattutto tra Platone e Plotino, il brutto si presenta sotto la forma del "non-essere". Una statua manca della proporzione giusta - secondo il canone di Policleto - quando ad esempio una testa maschile non sia, dal mento all'attaccatura dei capelli, un decimo dell'altezza del corpo. Se proporzioni canoniche come questa non sono rispettate, allora la statua viene brutta, è colpita da questa maledizione del non-essere, nel senso che c'è qualche cosa che non dovrebbe essere così.

Fu il Cristianesimo, per motivi religiosi, a rivendicare, in qualche modo, la positività del brutto. In quali termini è avvenuta questa sorta di riabilitazione?
Vi è un motivo fondamentale per cui la religione cristiana in un certo modo riscatta il brutto, così come riscatta il peccato, sino, a volte, a raffigurare brutto il Cristo stesso. Mentre nella tradizione greca, in quella neoplatonica, è l'uomo che deve innalzarsi, attraverso l'ascesi, alla divinità, nella tradizione cristiana - se si guarda uno dei grandi testi di San Paolo che contiene l'Inno a Cristo - noi vediamo che là è Dio che discende, si degrada, si umilia nel farsi uomo, che si svuota della sua gloria e della sua divinità e diventa non solo uno come noi, ma il peggiore di noi dal punto di vista esterno. Così il Cristianesimo pone per la prima volta una separazione tra l'interno e l'esterno: bisogna riconoscere dietro la bruttezza esteriore di un'individuo la gloria di Cristo che risiede in ogni nostro simile.

Nell'Età Moderna continua la riabilitazione progressiva di questo concetto, che ottiene addirittura legittimità nell'arte. Può riassumerci i momenti iniziali di questo processo?
Nell'età moderna si scopre che la bellezza non ha più a che vedere con ciò che è misurabile, ma in un universo infinito noi abbiamo l'esperienza dello smisurato, dell'incommensurabile. Keplero, ad esempio, si vergognava della sua matematica e della sua astronomia, perché non voleva ammettere che il movimento dei pianeti fosse un movimento ellittico e non circolare, che era perfetto per eccellenza. Egli resiste vent'anni prima di accettare questa bruttura, cioè che l'universo non abbia delle configurazioni geometriche accreditate. Ecco, in questo periodo il brutto comincia a essere recepito come qualcosa che esiste in natura. Ci sono poi le esplorazioni geografiche che dimostrano l'esistenza di una quantità di animali strani, oppure bellissimi ma velenosi. Quindi nasce l'idea che la creazione è qualcosa di misterioso, che mescola il bene e mescola il male.Poi c'è stato Shakespeare, che nel "Canto delle streghe" del Macbeth fa dire loro esplicitamente "il bello è brutto, il brutto è bello". Il mondo, guardato in se stesso, non obbedisce più a quei canoni, rigidi, classici, che gli si attribuivano prima. Vi è una sensibilizzazione per il brutto, cioè per il non-classico, che bolle, per così dire, a fuoco lento per circa due secoli.

Il Romanticismo con Schlegel sembra fare del brutto l'elemento distintivo tra l'arte antica e l'arte moderna. Cosa intende propriamente Schlegel con questa distinzione?
Il Saggio sulla poesia greca del 1796, che è la prima grande opera di Friedrich Schlegel - fondatore del Romanticismo - presenta questa distinzione: l'arte antica cresce come fiori di campo, tende spontaneamente al bello, l'arte moderna invece ha bisogno dell' "interessante" cioè di qualche cosa che ci metta continuamente in istato di eccitazione. Questo dipende dal fatto che noi siamo diventati degli individui insaziabili di novità, perché ormai la cultura ha esaurito tutte le sue possibili forme ingenue, e ci è impossibile credere spontaneamente a quello che sentiamo, a quello che vediamo. Per questo il brutto è come un liquore per gli alcolizzati all'ultimo stadio, diciamo così, è quell'elemento di pepe, di interesse, che fa sì che noi siamo avvinti in maniera artificiale alle nostre produzioni artistiche. L'arte romantica si presenta quindi come una grande sperimentazione, in cui tutto viene mescolato, in cui il brutto tradizionale serve come lievito per scoprire nuove forme di bello, come concime, diciamo.

Questa concezione del brutto nell'Ottocento matura ulteriormente sino ad assumere, nel campo dell'arte, addirittura la mostruosità?
Soprattutto Victor Hugo e la letteratura francese dell'Ottocento, il suo "Misteri di Parigi" oppure Baudelaire di quella poesia terribile "A una carogna", vedono l'arte e la bellezza discendere dal loro piedistallo e mescolarsi tra le cose del mondo. In un periodo in cui la società va a scoprire le sue fondamenta, le sue fogne, i suoi aspetti più terribili e impresentabili, l'arte si presenta come un abbandono della dimensione dell'eterno e come una caduta nel quotidiano, o come dirà appunto Baudelaire, una "caduta di aureola". Bello e brutto ormai non si distinguono più, abbiamo oltrepassato i confini stabiliti da Schlegel. Nascono così quei personaggi inquietanti, ma in fondo positivi, come il Gobbo di Notre-Dame, Quasimodo, oppure Tribulé, che è più noto da noi per l'opera di Verdi col nome di Rigoletto.
L'arte si va socializzando, raggiunge masse sempre più estese, è ciò la lega alla politica ed alla critica sociale. É appunto tale rapporto con la critica alla società che fa venire a galla tutti questi aspetti di patologia di cui l'arte si occupa, soprattutto in quelle tendenze del socialismo francese a cui Hugo apparteneva.

Che cosa voleva sostenere Karl Rosenkranz, discepolo di Hegel, con il suo libro del 1853 intitolato l'Estetica del brutto?
Per Rosenkranz vi è anche un'arte brutta, in cui il brutto non solo è qualcosa che l'arte non deve escludere, ma è qualcosa di cui l'arte e la bellezza hanno bisogno, cioè un'opera d'arte è tanto più bella quanto più grande è la quantità di negativo, di brutto, che ha dovuto vincere. Quindi l'arte è in sostanza concepita da Rosenkranz come un combattimento tra l'Arcangelo Gabriele e il diavolo. Se l'arte resta pacificata, se l'arte non si scontra coi grandi problemi che sono inafferrabili, ma che rappresentano il male del mondo, le patologie della realtà, quest'arte non avrà nessuna possibilità di grandezza.

Professore, tutta l'arte moderna, rovesciando i canoni tradizionali del bello, produce opere in cui domina lo stridore dei colori, la deformazione delle figure, le dissonanze, le frasi assurde. Questo significa che il brutto è diventato la vera bellezza?
Significa proprio questo, perché, siccome il bello non problematico, cellofanato, si è trasformato in kitsch, cioè in qualche cosa che non produce più nessuna emozione estetica. Questo perché un tale genere di bello asseconda, liscia tutti i pregiudizi e tutte le forme percettive ormai consunte . Ecco, in questa situazione allora l'arte reagisce sperimentando qualche cosa che va al di là delle forme "fruste", delle forme consumate, e quindi introduce, ad esempio in musica, in forma massiccia quelle dissonanze che già Mozart o l'ultimo Beethoven avevano sperimentato. E le introduce per far sentire il dolore del mondo, una specie di pianto, che invece l'arte ufficiale, in genere sotto la grande ala dello Stato, cerca di eliminare in forma trionfalistica. Se invece di rappresentare fiorellini, rondini, si rappresenta l'orrore, questo orrore ha un valore di carattere catartico e pedagogico, cioè ci fa capire come è fatto il mondo e nello stesso tempo ci addita una dimensione utopica di come il mondo potrebbe essere.

Lei ritiene che la sensibilità dei nostri giorni sia ancora legata a questo pathos vero e proprio per il brutto?
Credo di no, però dobbiamo pensare a cosa ha significato questo pathos per il brutto. C'è stato un periodo in cui l'arte si è posta come compito quello di svelare la presenza del dolore e delle lacerazioni all'interno della società e di ritrovare in questo rimosso il senso più autentico del bello. Puntando cioè solo su tale rimosso e quindi con forme di privazione sensoriale.
Dice Adorno: "l'arte è in lutto". C'è una specie di divieto del piacere, io non devo godere durante la rappresentazione delle opere d'arte, cioè devo soffrire, devo sostanzialmente avere dell'arte una concezione ascetica. Adorno ha pagine molto belle proprio sul carattere della musica. La musica ha un aspetto di sofferenza, ma ha anche un aspetto liberatorio che si manifesta soltanto col pianto. Leggerei solo una sua frase: "L'uomo che si lascia defluire in pianto e in una musica che non gli assomiglia più in nulla, lascia contemporaneamente rifluire in sé la corrente di ciò che egli non è e che aveva ristagnato dietro lo sbarramento degli oggetti concreti. Col suo pianto e il suo canto egli penetra nella realtà alienata". Parole difficili, che però vogliono dire che se noi, attraverso l'arte, e in questo caso la musica, riusciamo a togliere questa barriera che ci separa dal mondo da cui ci siamo staccati, quindi dalla realtà alienata; se noi facciamo rifluire il mondo in noi e nello stesso tempo, attraverso questo allentamento della tensione, che si manifesta nel pianto, facciamo in modo che la nostra soggettività si metta di nuovo in contatto col mondo, ecco che l'arte a questo punto non mi dà soltanto dispiacere, ma anche piacere.
Io credo che attualmente noi - per rispondere alla domanda - siamo stanchi forse di questa overdose di arte che fa soffrire e come tendenza generale - sociologicamente parlando, non artisticamente parlando - si cerca un bello senza dolore. Probabilmente questo dipende dal fatto che la sperimentazione si è avvitata su se stessa e che molte volte non c'è più creatività. Quello che è interessante è che il brutto non viene più necessariamente considerato un lievito o un concime per il bello. Si possono fare delle cose belle, senza pagare il pedaggio del brutto. Che questo sia un fatto transitorio o un fatto permanente, non lo so, però certamente perdendo il contatto col rimosso o col brutto probabilmente si sacrifica qualcosa e tempo verrà, presago, "il cor mel dice", in cui, dopo tutta questa fase luttuosa dell'arte del Novecento, il senso delle avanguardie potrà essere ripreso e senza avere la pretesa di affondare nuovamente nel brutto e nel rimosso, si dovrà pur fare i conti con ciò che un'arte troppo pacificata nel presente ci propone.


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